La biopirateria è il furto dei saperi tradizionali attraverso i brevetti. Si tratta di una nuova forma di colonionalismo che le multinazionali commettono ai danni delle comunità autoctone. Intervista all’ambientalista indiana Mira Shiva.La biopirateria è il furto perpetuato dalle grandi corporation che si appropriano di saperi tradizionali, conosciuti da secoli, bloccandoli con brevetti. L’ambientalista indiana Mira Shiva, invitata a Roma al convegno “Sblocchiamo il diritto al cibo", va diritta al punto: “In India vi sono varietà di riso che resistono al sale, alla siccità, ai monsoni e alle inondazioni. Sono fondamentali per la vita di milioni di persone – ha detto la cofondatrice, assieme alla sorella Vandana, una delle leader riconosciuta dei movimenti altermondisti, dell’organizzazione Navdanya – dalla Monsanto alla Syngenta alla Dupont, tutte le grandi multinazionali agroalimentari hanno fatto richiesta di brevetto su queste varietà. Se questi fossero concessi, si arriverà alla fame".
La biopirateria è considerata una nuova forma di colonialismo perpetrata ai danni delle popolazioni native. Come “cacciatori”, gli esperti dei colossi dell’alimentazione e della farmaceutica scrutano i continenti alla ricerca di specie di piante che secoli di lavoro contadino ha reso particolarmente resistenti a determinate condizioni atmosferiche o ambientali. “Prede” che, con qualche modifica, sono presentate come innovazioni ottenute in laboratorio.
L’ultima frontiera in questa direzione è utilizzare i cambiamenti climatici come scusa per appropriarsi di tali innovazioni collettive nelle colture. “Fanno sembrare la resistenza al clima una loro invenzione, cancellando le scoperte fatte in centinaia di anni”.
Quanto il sistema sia dannoso lo dimostrano gli oltre 250mila suicidi tra i contadini negli ultimi quindici anni. La maggior parte, ha raccontato Mira Shiva a China Files, è stata strangolata dai debiti contratti per poter acquistare sementi protette da brevetto e fertilizzanti. Si tratta soprattutto di cotone bt, geneticamente modificato, che ormai copre il 95 per cento della produzione indiana, ma si è rivelato un fallimento per quanto riguarda la resa. Una situazione insostenibile per gli agricoltori in possesso di piccoli campi, non più grandi di pochi ettari, la cui ultima risorsa per ripagare i debiti era ipotecare la propria terra.
Negli anni, Navdanya ha ottenuto almeno tre grandi vittorie contro questo sistema. A maggio 2000, dopo una campagna di sensibilizzazione iniziata nel 1994 con la raccolta di un milione di firme, ottenne la revoca dei brevetti concesso dieci anni prima alla WR Grace per un prodotto fungicida estratto dai semi della pianta del neem, tradizionalmente usata dalle popolazioni indigene per le sue proprietà curative. L’anno dopo fu la volta del brevetto sul riso basmati alla RiceTec, che pretendeva di aver “inventato” tratti caratteristici di questa varietà come l’altezza della pianta, la lunghezza dei chicchi e l’aroma. Nel 2004 la terza vittoria, questa volta contro la Monsanto, per quanto riguarda il blocco della varietà di grano nap hal.
Secondo Mira Shiva, il clima favorevole a questo furto il cui fine ultimo è il profitto ha radici nella tendenza a mettere ai margini i saperi collettivi. “Sono un medico” – spiega – “ai tempi dell’università sia io sia i miei colleghi non abbiamo mai ricevuto insegnamenti sulla medicina tradizionale. Neanche per dieci minuti. Nei villaggi ho iniziato a conoscere le capacità terapeutiche e di profilassi di certe piante. Sono qualità che tutti conoscono. Come si può anche soltanto pensare di brevettarle?”.
Stesso discorso vale per le sementi: beni collettivi dei contadini messi sul mercato quasi sotto regime di monopolio. Beni di cui tradizionalmente si sono prese cura le donne. Non stupisce pertanto il ruolo femminile nelle campagne di Navdanya. “Sono le donne che scelgono le sementi, sono le donne che si occupano del cibo. Sono quindi loro le prime a capire gli effetti devastanti di queste politiche”.