Tutto ha inizio il 5 luglio, quando il Wall Street Journal online annuncia che l’azienda americana parteciperà alla realizzazione di un monumentale sistema di video-sorveglianza per la città di Chongqing, denominato eufemisticamente “Peaceful Chongqing”: Cisco dovrebbe occuparsi della fornitura di oltre 500mila videocamere da disseminare in tutta la città, mentre un altro colosso americano, Hewlett Packard, si occuperà della parte software del sistema.
L’annuncio arriva a poche settimane dall’acme della repressione cinese dei soliti noti – avvocati, attivisti per i diritti umani, dissidenti – e delle sommosse di Chongqing, causando inevitabilmente pesanti accuse di connivenza con Pechino per stringere le maglie del controllo sociale nella Repubblica popolare.
Cisco non è nuova a trovare nel governo cinese un solido partner per i propri affari in Asia. Nel 2002, quando l’idea di rendere la rete cinese una gigantesca intranet sottoposta a filtri e rigidi controlli iniziava a concretizzarsi, il contributo della Cisco nella realizzazione pratica del Great Firewall risultò determinante. Secondo quanto riportato da Wired, entrato in possesso di documenti confidenziali della compagnia americana di hi-tech verso la fine di maggio 2008, la Cisco nel 2002 era perfettamente a conoscenza del potenziale repressivo del gigantesco firewall pensato dal governo cinese, tanto che uno degli obiettivi del futuro Great Firewall presentato da Cisco all’acquirente cinese doveva essere – testualmente – “combattere la malvagia religione del Falun Gong ed altri nemici”. A distanza di tre anni la Human Rights Law Foundation, per conto di alcuni membri del Falun Gong, ha citato in causa la Cisco Systems presso la Corte federale di San Jose, California, accusandola di aver volontariamente modificato i propri prodotti per rispondere alle specifiche richieste del governo cinese per la realizzazione del Great Firewall. Accuse che la Cisco respinge categoricamente: “Cisco non gestisce network in Cina o altrove né modifica i propri prodotti per facilitare attività di repressione o censura”.
La collaborazione sino-americana per il progetto “Peaceful Chongqing” non è piaciuta nemmeno al Global Times, che in un articolo del 7 luglio sostiene che dovrebbero essere i media cinesi i primi a lamentarsi dell’intromissione della Cisco in affari cinesi: “Le immagini video di Chongqing potrebbero contenere dati sensibili per la nostra sicurezza nazionale. Come possiamo chiedere a una compagnia straniera, specie di un Paese così poco amichevole, di occuparsi di questo progetto?”. La tesi del quotidiano cinese in lingua inglese è molto chiara: come ci si può fidare ad avere “occhi ed orecchie americane” sul territorio cinese?
In uno scatto di sindrome da accerchiamento misto a protezionismo e nazionalismo, il Global Times critica duramente la scelta di delegare il controllo nazionale ad aziende estere, spiegando che “alcune industrie strategiche hanno registrato la penetrazione o il dominio dei capitali americani; fondi americani influenzano alcune istituzioni accademiche e progetti di ricerca in Cina. Secondo gli standard della sicurezza nazionale americana, dovremmo preoccuparci.”
La soluzione sarebbe affidare questo tipo di progetti a fidate aziende cinesi, fugando così ogni timore di spionaggio o Grande Fratello americano in agguato: psicosi mai sopite e rinate proprio, ironia della sorte, nel tentativo di liberarsi di altre paure.