La terza vittoria elettorale consecutiva della famiglia Shinawatra porta la firma di Yingluck, 44 anni, prima premier donna della Thailandia. Alla guida del Pheu Tha Party, la sorella minore dell’ex primo ministro in esilio, Thaksin, ha conquistato 264 seggi su 500, più che sufficienti a formare un esecutivo senza il timore di essere estromessa dal governo da una coalizione tra i democratici e i partiti minori. Sembra al momento scongiurata anche l’ipotesi di un golpe militare per ribaltare l’esito del voto. “Lasceremo lavorare i politici”, ha detto il generale Prawit Wongsuwa, che ha scacciato i fantasmi dei colpi di mano contro il magnate Thaksin. Una prima volta con il golpe del 2006, che costrinse l’ex proprietario del Manchester City a riparare a Dubai. La seconda nel 2008, con il taycoon vittorioso, nonostante fosse in esilio e su di lui pendesse un mandato d’arresto per corruzione.
Risultato ribaltato dalla magistratura che assegnò la carica di primo ministro al democratico, Abhisit Vejjajiva, rappresentate delle élite cittadine e inviso alle frange più povere della popolazione. Alla vigilia del voto, indiscrezioni riportate dal quotidiano online Asia Times, riferivano di colloqui segreti tra rappresentati dell’esercito, della casa reale e del Pheu Thai per scongiurare nuove violenze.
L’accordo, smentito dagli interessati, prevedeva che i militari non intervenissero in caso di vittoria del Pheu Thai che a sua volta non si sarebbe rivalso per il golpe di cinque anni fa. Tuttavia, nei giorni precedenti il voto sono circolate notizie di intimidazioni dei soldati sugli elettori nelle roccheforti del premier in esilio. La vittoria di Yingluck è stata riconosciuta anche dal suo rivale Abhisit, che in campagna elettorale aveva enfatizzato i legami tra la leader del Pheu Thai e il fratello, accusato di essere l’eminenza grigia del partito. Negli ultimi sei anni il Paese si è sempre più polarizzato.
Da una parte le cosiddette “camicie gialle”. Conservatori e fedeli alla monarchia, i ‘gialli’, riuniti nell’Alleanza del popolo per la democrazia (PAD), furono gli animatori delle manifestazioni che crearono le condizioni per il primo colpo di Stato contro il magnate. E negli ultimi mesi sono stati protagonisti di manifestazioni ultranazionaliste contro quello che ritengono l’atteggiamento arrendevole del governo sulla disputa territoriale tra Thailandia e Cambogia, attorno al tempio indù di Preah Vihear.
L’altro versante della scena politica è occupato dalle camicie rosse, fedeli a Thaksin, che la scorsa primavera occuparono per due mesi il distretto economico e finanziario di Bangkok. La protesta antigovernativa fu repressa il 19 maggio con l’intervento dell’esercito: il bilancio fu di 91 morti e oltre 1.800 feriti, in quelle che furono considerate le più gravi violenze politiche nella storia della Thailandia moderna. Divisioni evidenti in campo geografico e sociale con le élite della capitale e il sud -dove continua il conflitto tra l’esercito e movimenti islamisti- feudi dei democratici.
Mentre parte dell’imprenditoria e il nord-est rurale sono bacino di preferenze per il partito del ex premier in esilio, coltivato con politiche populiste a favore dei ceti più svantaggiati, cui aveva assicurato una prima forma di assistenza sanitaria. Sullo sfondo si staglia la figura del re BhumibolAdulyadej, indebolito nel fisico alla soglia degli 84 anni, ma forte di un’autorità morale riconosciuta dalla maggior parte dei tailandesi, ancora non accorda al principe ereditario Vajiralongkorn.
Entrambi gli schieramenti hanno impostato la campagna elettorale sull’aumento dei salari minimi (del 25 per cento i democratici, del 40 per cento il Pheu Tahi), sullo sviluppo delle infrastrutture e sulla sicurezza sociale. L’inflazione a giugno ha toccato il 4,1 per cento, ma il dato è stato tenuto artificialmente basso calmierando i prezzi di alcuni prodotti essenziali come l’olio di palma, lo zucchero, le uova e con un taglio delle tasse che ha tenuto il carburante sotto il prezzo di mercato. L’aumento dei consumi interni è considerata una priorità. Il 65 per cento del prodotto interno lordo si basa sulle esportazioni, ma il calo della domanda seguito alla crisi finanziaria del 2008 ha causato un calo del pil del 2,3 per cento.