Il commento ufficiale del governo cinese sulla morte di Osama Bin Laden è arrivato con ventiquattro ore di ritardo. Soltanto ieri un comunicato sul sito del ministero degli Esteri spiegava la posizione di Pechino, mentre sulle chat e i forum online, già dal giorno prima, gli utenti cinesi si dividevano tra chi considerava il ricco terrorista saudita un eroe e chi vantava gli ideali di libertà e giustizia “incarnati” dagli Stati Uniti.
“La morte dello sceicco del terrore è una pietra miliare nella lotta globale ai fondamentalismi", recitava il testo firmato dalla portavoce del ministero, Jiang Yu. “Un evento positivo”, continua la nota, che spinge la Cina a sostenere e “rafforzare la cooperazione internazionale per la lotta contro il terrorismo”. Fondamentalismo e terrorismo, d’altronde, sono assieme al separatismo i tre mali che, nell’ottica di Pechino, affliggono la provincia occidentale dello Xinjiang, popolata dalla minoranza uigura -turcofona e di religione islamica- e teatro nel luglio 2009 di una violenta sommossa popolare che fece almeno 197 morti.
Le proteste furono represse con la forza da Pechino che negli anni, soprattutto dal 2001, ha sempre usato lo spauracchio del terrorismo per giustificare le proprie politiche nella regione ai confini dell’Asia centrale, usando come conferma alle proprie accuse gli arresti di militanti islamici fatti in dieci anni di guerra al terrorismo internazionale: basti pensare ai 17 uiguri catturati in Pakistan e rinchiusi a Guantanamo. I distinguo cinesi si sono invece fatti sentire sul ruolo avuto dal Pakistan nell’operazione che ha portato alla morte del capo di al Qaida, scovato in una lussuosa fortezza vicino a Islamabad. Circostanza che ha minato la fiducia nell’impegno del governo pachistano nella caccia alle cellule terroristiche che sfruttano il Paese come propria base.
“Siamo certi della determinazione pachistana nella lotta ai terrorismi internazionali. Le prove dei loro sforzi sono sotto gli occhi di tutti e il loro contributo alla lotta globale è evidente”, è la posizione di Pechino, storico alleato di Islamabad in funzione anti-indiana. Come accaduto nel resto del mondo, l’uccisione dello sceicco del terrore è immediatamente diventato uno dei temi di discussione in rete. “Bin Laden è stato sempre un mistero per i cinesi”, ha scritto il corrispondente del New Yorker a Pechino, Evan Osnos, “il fanatismo religioso è qualcosa di difficilmente comprensibile per chi è incline ai precetti ben più pragmatici di buddismo, taoismo e confucianesimo.
Ma dieci anni fa la reazione agli attacchi dell’11 settembre fu stranamente tiepida. I cinesi avevano affrontato talmente tanti conflitti e sollevazioni interne che le morti di New York li toccarono soltanto lievemente”. Il sentimento di ambivalenza verso il leader di al Qaida emerge anche da un sondaggio dell’emittente televisiva Phoenix. Il 60 per cento degli spettatori ha detto di essere triste per la morte del “guerriero antiamericano”. Allo stesso tempo il 58 per cento, pur definendolo un combattente, considera inaccettabili i metodi del terrorista saudita. Soltanto il 17 per cento ritiene infine la morte di Bin Laden una vittoria contro il terrorismo. Una convinzione condivisa anche da un editoriale del quotidiano Global Times: “l’eliminazione fisica non spegnerà lo spirito incarnato nell’uomo. Per sradicare il terrorismo servirà ancora del tempo”.
Da questi dati, ha scritto il giornalista Zhang Wen, potrebbe derivare la lentezza del governo nel commentare la notizia, pur considerando le scarse simpatie di Pechino per lo sceicco del terrore. Lo schema ‘il nemico del mio nemico è mio amico’ anima invece gli interventi di April Web, vetrina in inglese degli AntiCnn, il progetto mediatico nato nel 2008 per bilanciare le informazioni sulla Cina apparse sui media occidentali e giudicate di parte e viziate da pregiudizi dai giovani nazionalisti cinesi. “La grande bugia di Obama, la propaganda della Casa Bianca e la morte di Bin Laden”, titolava martedì il sito.