Mao contro Mao è la formula che caratterizza lo scontro ideologico tra la destra e la sinistra dell’intellighenzia cinese, esploso nei mesi precedenti il novantesimo anniversario della fondazione del Partito comunista. Il primo Mao è Mao Yushi, economista ottantaduenne, rappresentante dell’ala liberale della dirigenza. Il secondo è invece il Grande Timoniere, leader indiscusso della Nuova Cina fino alla sua morte nel 1976, il cui ritratto ancora oggi campeggia sulla Città Proibita a Pechino.
A dare fuoco alle polveri fu un articolo sul settimanale Caixin di Mao Yushi con cui chiese di dare un taglio all’idolatria per Mao Zedong, riportando la figura del presidente a una dimensione umana, sottolineando le sue responsabilità nella morte per carestia di milioni di cinesi durante il Grande Balzo e delle atrocità della Rivoluzione Culturale.
Si ruppe così un tabù durato decenni e si andò ben oltre la schematizzazione matematica fatta durante la demaoizzazione della fine degli anni Settanta in cui le azioni del Grande Timoniere furono considerate per il 70 per cento giuste e per il 30 per cento sbagliate. “Non è un dio e dovrebbe essere portato giù dagli altari”, si legge nel pezzo, “Bisogna spogliarlo dell’aura che lo circonda e che lo descrive come un uomo straordinario”.
Le critiche, in controtendenza con la propaganda che ha accompagnato l’avvicinarsi del novantesimo, non hanno risparmiato lo stesso Pcc, le cui politiche , ha scritto, non hanno portato la felicità dei cittadini, ma hanno fatto sprofondare la Cina in “un abisso di miseria durato trent’anni”.
Nella Cina del risveglio della retorica “rossa”, che ha il suo portabandiera in Bo Xilai, segretario del Pcc della megalopoli Chongqing, la levata di scudi contro le posizioni dei liberali non hanno tardato. La sinistra accademica riunita nel collettivo Utopia è stata la prima ad attaccare le posizioni di Mao Yushi e di Xin Ziling, ex ufficiale dell’Accademia cinese per la difesa nazionale e tra i firmatari, lo scorso ottobre, di una lettera aperta per chiedere la fine della censura e riforme democratiche. L’ex militare è anche autore di un articolo presentato a un convegno di quadri in pensione del partito, che conterrebbe almeno “tre errori”, compreso l’aver parlato delle pressioni che il primo ministro Wen Jiabao, iscritto nell’area del riformisti, subirebbe dall’ala conservatrice del Pcc. Sia Mao sia Xin sono definiti traditori borghesi, cani e collaborazionisti.
È seguita una denuncia contro l’economista per sovversione e diffamazione, presentata alla polizia di Pechino con in calce 10mila firme, tra cui quelle della nipote del Grande Timoniere, Mao Xiaoqing e della nuora Liu Siqi, vedova del primogenito Mao Anying. Da parte loro i maoisti duri e puri hanno denunciato attacchi informatici al loro portale di riferimento, tuttavia non riconducibili direttamente ai liberali.
Il dibattito ha raggiunto le colonne del Quotidiano del popolo, voce ufficiale dei comunisti cinesi, dove si sono alternati editoriali e commenti favorevoli alle due posizioni: l’una chiedendo ulteriori riforme, l’altra più disciplina di partito. In superficie nella Cina contemporanea c’è un revival di canzoni rivoluzionarie, falci e martelli che addobbano le città e letture dei passi di testi del defunto presidente.
Ma, secondo indiscrezioni, tra i corridoi di Zhongnanhai, cuore del potere comunista, circola una proposta: rimuovere il riferimento al “pensiero di Mao Zedong” dai documenti ufficiali del Partito.