Quando alla fine di giugno Henry Kissinger ha aperto a Pechino i lavori del secondo Global Think Tank Summit, per l’ex Segretario di Stato americano si trattava anche di una ricorrenza speciale: in quello stesso giorno, quarant’anni prima, Kissinger volava in segreto a Pechino per ristabilire le relazioni diplomatiche tra Cina e Stati Uniti, interrotte dopo la fine della guerra civile. Nel suo ultimo libro, “On China”, Kissinger offre uno sguardo dietro le quinte dell’Impero di Mezzo basandosi sui suoi incontri personali con i leader vecchi e nuovi, descrive la sua visione della diplomazia cinese, e traccia alcune linee per il futuro. “Ho scritto questo libro per spiegare quello che pensano i cinesi su questioni come la pace, la guerra, e l’ordine internazionale” ha detto il principe dei diplomatici americani.
Una lettura particolarmente adatta a celebrare i 90 anni dalla fondazione del Partito Comunista Cinese. Per Kissinger la politica estera di Pechino può essere paragonata al wei qi, il gioco da tavolo nel quale bisogna circondare pazientemente l’avversario e la vittoria può essere solo relativa. “Per la strategia cinese la ricerca di un esito definitivo è illusoria – si legge nel libro-, ciò che è possibile perseguire, invece, è un gioco di ‘coesistenza combattiva’, nel quale si cerca di incrementare il proprio potere relativo tra le forze della politica mondiale, in continuo mutamento”.
Così, mentre i negoziatori americani trattano le diverse questioni sul tavolo in un sistema di compartimenti stagni e vanno alla ricerca di soluzioni per ognuna di esse, i cinesi integrano tutte le questioni e cercano accordi: è qualcosa che si è visto ripetutamente anche negli ultimi anni, quando su contrapposizioni come il caso Google o il problema della rivalutazione dello yuan l’America tentava di risolvere il caso singolo mentre la Cina si limitava a definire l’andamento generale delle relazioni “amichevole” o “freddo” a seconda del momento. “La diplomazia cinese è psicologica” scrive Kissinger, raccontando ad esempio che durante il suo primo incontro con Zhou Enlai, il premier cinese aveva organizzato l’agenda in modo da lasciare spazio a due soli negoziati, una mossa che costrinse di fatto l’inviato americano a organizzare la futura visita del presidente Richard Nixon sulla base di pochissimi dettagli stabiliti in precedenza.
Uno degli aspetti che colpisce di più del libro è che Kissinger descrive sistematicamente i leader cinesi come razionali e pragmatici, mentre gli americani appaiono spesso confusi, in quella che a tratti sembra forse una fascinazione eccessiva. Così, Zhou Enlai “conduceva le conversazioni con la grazia e l’intelligenza superiore del saggio confuciano”, mentre Deng Xiaoping, “un coraggioso piccolo uomo dagli occhi malinconici” “si era assunto lo sforzo titanico di modernizzare il paese, facendo accettare ai comunisti la necessità della decentralizzazione e della modernizzazione”.
E Mao Zedong? Dai giudizi sul Grande Timoniere emerge tutta la realpolitik, e il cinismo, per il quale Kissinger è famoso: “Le tremende sofferenze che Mao ha inflitto al suo popolo porteranno a minimizzare i risultati che ha ottenuto, ma se la Cina rimarrà unita ed emergerà come la superpotenza del 21simo secolo, allora forse molti cinesi finiranno col giudicarlo con lo stesso metro applicato all’imperatore Qin Shihuang, i cui eccessi vennero più tardi riconosciuti come un male necessario”.
Nel libro, Kissinger non si dilunga su una questione chiave come l’enorme quantità di debito pubblico americano detenuto dalla Cina, anche se riconosce che la crisi del 2008 ha “profondamente smitizzato il valore delle politiche economiche occidentali”, e sottolinea come Hu Jintao e Wen Jiabao governino ormai un paese che non si sente intimidito da una qualche forma di inferiorità verso la tecnologia e le forme politiche dell’Occidente. Nel suo discorso al Global Think Tank summit, invece, l’ex Segretario di Stato si è soffermato sull’argomento, paragonando la Cina del 2011 agli Stati Uniti del 1947: “In qualità di primo creditore del mondo, la Cina si trova oggi nella stessa posizione degli USA alla fine della Seconda Guerra Mondiale- ha detto Kissinger-, mentre l’America è assorbita da un dibattito interno sull’ampiezza delle competenze del governo e l’Europa si dibatte in una crisi finanziaria e di idee”.
A parole, Kissinger sembra prevedere un mondo multipolare nel quale il G20 costituirà il principale strumento di gestione della politica planetaria, ma tanto dalle pagine di “On China” che dal discorso di giugno emerge spesso una visione leggermente diversa: “la cooperazione tra Washington e Pechino è essenziale per la stabilità globale e per la pace, e in nessun caso le relazioni tra Pechino e Washington dovranno diventare un gioco a somma zero”. Forse per Kissinger – che oggi, a 88 anni vanta moltissimi interessi economici nell’Impero di Mezzo attraverso la sua società di consulenza Kissinger Associates Inc.- un G2 è di gran lunga più importante del G20.