Intervista a Kerry Brown, sinologo britannico e direttore del Lau China Institute al King’s College di Londra. Brown è autore di numerose pubblicazioni concentrate soprattutto sulla leadership del Partito comunista cinese.
Professor Brown, il Partito comunista cinese ha raggiunto i cento anni di vita, quasi 72 dei quali al timone della Cina. Quali sono le caratteristiche che gli hanno consentito di raggiungere e mantenere il potere per così lungo tempo?
Inizialmente, si trattava di un’entità estremamente marginale che non contava più di qualche dozzina di membri e che era in competizione con altre forze politiche che apparivano più forti. Il Partito si è giovato del sostegno e del patrocinio dell’Unione Sovietica e una volta che ha raggiunto il potere non lo ha più perso per due principali ragioni. La prima è il modo spietato in cui si è assicurato che l’opposizione fosse distrutta. Non ha mai permesso alcun tipo di contrapposizione politica organizzata da quando è salito al potere fino a oggi. Chiunque cerchi di associarsi in una qualche organizzazione di stampo politico non va lontano, basti ricordare quanto accaduto alla fine degli anni Novanta al China Democracy Party fondato ad Hangzhou, i cui membri furono tutti arrestati. Insomma, non c’è posto per alcun tipo di opposizione. La seconda ragione è che le decisioni prese alla fine degli anni Settanta sono state una pietra miliare per lo sviluppo dell’economia e per l’arricchimento personale degli individui. Oggi il Pcc è a capo della seconda economia mondiale, pronta a diventare la prima. Questa performance gli ha dato legittimità ed è la base del suo diritto a governare.
Quanto il “socialismo con caratteristiche cinesi” propugnato dal Partito è stato decisivo per raggiungere questi successi sotto il profilo economico?
Di certo il socialismo con caratteristiche cinesi è stato il brand ideologico chiave utilizzato dal Partito. E bisogna riconoscere che ha avuto successo visto il rafforzamento economico e geopolitico della Cina. Avrebbe potuto la Cina essere ancora più forte con un’altra ideologia? Forse, ma non possiamo saperlo. Il punto è che oggi la Cina è forte e il Partito può sostenere che ciò è basato su quanto ha fatto.
Negli ultimi giorni sono stati chiusi diversi account di gruppi pro Lgbt. Quanto è influenzato oggi il Partito dalla società civile?
Non molto. Il governo controlla larga parte della società civile. Inoltre, c’è sempre questo stereotipo dei cinesi che vivono una vita irregimentata con il governo che impone loro che cosa pensare e che cosa fare. Non è così, ma è innegabile che lo stato voglia controllare sempre di più qualsiasi forma di associazionismo, compreso quello attivo nell’assistenza ad anziani e indigenti.
Quali sono le qualità richieste ai membri del Partito per diventare leader?
La prima cosa è ovviamente la lealtà. Ma la competenza è decisiva per diventare leader. Se sei leale ma incompetente non arriverai mai a una carica apicale. Per arrivare al vertice servono entrambe le qualità, ma la meritocrazia non è l’unico criterio. Non basta essere il più bravo della classe, bisogna anche imparare una serie di tecniche e qualità politiche che non si insegnano nelle università, come la capacità di fare lobbying.
I media occidentali tendono spesso a descrivere Xi Jinping come un “uomo solo” al potere. È davvero così oppure quel potere deriva e dipende ancora dalla struttura del Partito?
È evidente che la figura di Xi sia divenuta sempre più dominante nel corso degli ultimi dieci anni. Ma ritengo che si dia eccessiva enfasi al suo ruolo individuale rispetto invece alla sua relazione con il Partito. È l’uomo del Partito e il Partito è guidato da un leader carismatico. Pensare che tutto dipenda solo da Xi e descriverlo come un imperatore è probabilmente un malinteso. La sua forma di leadership è quella che è considerata più appropriata oggi dalla maggioranza del Partito, quando la Cina sta affrontando un’enorme quantità di sfide, compresa la transizione verso un diverso sistema economico e l’ascesa verso un nuovo ruolo geopolitico, in attesa di diventare la prima economia mondiale. In questo momento, la Cina ritiene di aver bisogno di un leader prominente: da qui il focus sulla figura di Xi. Chi è lui come individuo non conta da tempo: Xi è il Partito, il Partito è Xi. È difficile distinguere tra l’uno e l’altro. È come guardare un iceberg. Si vede solo la punta, che è Xi, ma sotto di lui c’è una struttura immensa che resta nascosta: il Partito. La punta e ciò che c’è sotto sono completamente interconnessi l’uno con l’altro, non possono essere separati.
La possibilità di restare al potere per un terzo o addirittura quarto mandato dipende solo da Xi oppure anche (o soprattutto) dal volere del Partito?
Mi pare evidente che il Partito considera rischioso avere una transizione di leadership in un momento così critico come quello presente. Ritengo che Xi resterà per un terzo mandato ma questo non significa che la sua sarà una presidenza perpetua. Credo che ci sarà una successione in futuro, o magari potremmo vedere qualche cambiamento ancora più radicale o delle riforme sorprendenti. Chi studia e osserva la Cina sa che ogni volta che si pensa di conoscerla e che abbia raggiunto la forma definitiva che manterrà anche in futuro, la Cina sorprende. Lo ha fatto dopo la Rivoluzione Culturale, quando si pensava che sarebbe rimasto un paese maoista e stalinista. Poi arrivarono le riforme economiche. Io penso che anche in futuro la Cina proseguirà a riformarsi e a cambiare, solo senza seguire il modello occidentale.
Negli ultimi mesi, il governo sembra essere diventato più pervasivo anche nella sfera dell’economia privata e nei confronti delle sue big tech. Come va letta la vicenda di Jack Ma, alla quale si è poi aggiunta quella di Didi?
Quando qualcuno guadagna molti soldi e ha molta esposizione potrebbe anche conquistare molto potere. Jack Ma aveva cominciato a essere critico su alcune politiche finanziarie e il governo ha deciso di farne un simbolo di un messaggio: in Cina nessuno può essere più grande del Partito. Il Pcc non vuole ripetere l’esempio degli oligarchi russi e vuole evitare che si formi una elite economica che possa pensare di avere un qualche spazio per imporre le proprie visioni politiche.
La tecnologia, però, insieme alla cultura sembra essere uno dei punti chiave dello sviluppo presente e futuro immaginato del Partito. Che ruolo hanno queste due componenti nel discorso politico del Pcc?
Lo sviluppo tecnologico è cruciale per diventare una nazione più moderna e la Cina anela questo obiettivo, anche per completare la sua transizione verso un nuovo modello economico basato sull’autarchia e il modello della doppia circolazione. Per quanto riguarda la cultura, si può dire che il Partito è un movimento culturale. Ha una sua visione del mondo, un insieme di pratiche, un modo di parlare. Quando aderisci al Pcc aderisci a uno stato dentro lo stato. Allo stesso tempo, si sta usano la cultura cinese tradizionale per migliorare il proprio appeal anche e soprattutto a livello internazionale e uscire dall’immagine del Partito con un’ideologia restrittiva.
A proposito di narrazione del Pcc verso l’esterno, sembra che Xi voglia dare una nuova voce al discorso globale cinese dopo il periodo della “diplomazia dei lupi guerrieri”. Vista la nuova postura degli Stati Uniti e dell’occidente in genere è troppo tardi oppure può ancora farcela?
È chiaro che il Covid-19 ha cambiato molto il ruolo della Cina sulla scena globale. La “diplomazia dei lupi guerrieri” è stata una reazione difensiva ma ora a Pechino serve un tono diverso. Non credo che se la Cina cambierà il tono del suo discorso globale cambierà anche le sue azioni, in particolare su questioni come Hong Kong, Xinjiang o Taiwan. Ma se riuscisse a parlare in un modo più considerato e collaborativo qualcosa potrebbe cambiare nelle sue relazioni internazionali. La Cina non scomparirà, rappresenta un quinto dell’umanità e un quinto dell’economia globale. È un partner chiave nelle lotte contro cambiamento climatico, pandemie e proliferazione nucleare. Non è giusto ed è dannoso demonizzare costantemente la Cina. Ma, allo stesso tempo, non è facile rapportarsi con lei se parla come un demone. Se la Cina non può parlare come un angelo, almeno dovrebbe farlo come un essere umano.
Una qualità che il Partito ha sempre dimostrato è la sua adattabilità, dimostrata anche in occasione della pandemia che da possibile “cigno nero” è semmai diventata un’occasione per riaffermare la sua legittimità e persino la sua superiorità verso le democrazie occidentali che si sono dimostrate meno efficienti nella gestione sanitaria. Quale potrebbe essere in futuro un rischio reale per il Pcc?
Negli ultimi tempi si parla molto della questione demografica ma io credo che la vera grande sfida sarà il cambiamento climatico. Avrà un fortissimo impatto sulla vita dei cittadini cinesi in futuro, tra siccità e ondate di calore. La crisi ambientale spaventa la Cina ed è per questo che il governo cerca di essere molto collaborativo sul tema, che può avere conseguenze molto più significative di una pandemia.
Nel suo ultimo libro, China, lei si chiede: “Che cosa succede quando l’obiettivo futuro più importante, la creazione di una Cina forte e unita non è più un’aspirazione ma un fatto?” Come può riuscire il Partito a spostare l’attenzione dalla creazione alla conservazione?
Sì, il Partito ha bisogno di un nuovo tipo di messaggio e questo è un grosso problema. Dopo aver costruito una Cina forte dovrà garantire uno stile di vita migliore ai cittadini. Probabilmente dovrà avere in qualche modo a che fare con dei gruppi che cercheranno una voce politica. Ci saranno negoziazioni e potenziali conflitti, ma non credo che la Cina guarderà verso occidente per risolvere i suoi problemi. Il Partito cercherà di adattarsi ed evolvere come ha sempre fatto finore. Il punto è quanto dovrà cambiare per perpetuare la sua legittimità.
Di Lorenzo Lamperti
[Pubblicato su il manifesto]
Classe 1984, giornalista. Direttore editoriale di China Files, cura la produzione dei mini e-book mensili tematici e la rassegna periodica “Go East” sulle relazioni Italia-Cina-Asia orientale. Responsabile del coordinamento editoriale di Associazione Italia-ASEAN. Scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra cui La Stampa, Il Manifesto, Affaritaliani, Eastwest. Collabora anche con ISPI. Cura la rassegna “Pillole asiatiche” sulla geopolitica asiatica.