“Il popolo taiwanese non si arrenderà”. Parola di Tsai Ing-wen, presidente di Taiwan. A poche ore dall’annuncio della rottura dei rapporti diplomatici con le isole Salomone, la leader taiwanese ha accusato la “diplomazia dei dollari” dispiegata da Pechino per emarginare l’isola democratica sullo scacchiere globale. Il divorzio – che mette fine a 36 anni di partenariato – è stato approvato lunedì dal governo di Honiara con 27 voti a favore, zero contrari e 6 astenuti.
Scendono così a 16 i paesi a mantenere rapporti formali con l’ex Formosa. Sei (oltre alle isole Salomone: Burkina Faso, Repubblica Dominicana, São Tomé e Principe, Panama ed El Salvador) quelli ad aver preferito la Cina da quando Tsai è giunta al potere nel 2016 con un’agenda filo-indipendentista. Da allora la mancata accettazione formale del principio “una sola Cina” – alla base della normalizzazione dei rapporti sotto la precedente amministrazione nazionalista – ha fatto precipitare gli scambi tra le due sponde dello Stretto a nuovo minimo storico. La perenne minaccia di un’invasione cinese non è servita ad ammorbidire la posizione di Taipei.
Pechino considera l’isola democratica una provincia ribelle da riannettere ai propri territori anche con l’uso della forza. Nell’ultimo anno, l’incremento delle esercitazioni militari nel quadrante è stato accompagnato dall’offerta di un ricongiungimento pacifico: la rinuncia definitiva all’indipendenza de iure in cambio di una parziale autonomia sotto quel motto “un paese due sistemi” contro il quale Hong Kong si batte da mesi. Una proposta “impossibile per i 23 milioni di taiwanesi”, ha spiegato Tsai, attribuendo la decisione di Honiara alle pressioni cinesi. Una decisione non facile ma attesa da tempo.
Secondo il Financial Times, l’offensiva di Pechino – che precede l’insediamento del governo Sogavare dello scorso aprile – si è intensifica solo nelle ultime settimane quando alla promessa di investimenti infrastrutturali si è aggiunta la proposta di un fondo per lo sviluppo in grado di competere con gli 8,5 milioni di dollari offerti da Taipei per il periodo 2019-2020. Ma la rottura è avvenuta solo dopo l’endorsement di una “task force bipartisan” istituita da Sogavare appositamente per valutare i benefici di un trasferimento nell’orbita cinese.
Le critiche non sono giunte soltanto dal governo taiwanese. Anche a Honiara c’è chi ritiene i tempi prematuri, imputando la frettolosità della decisione all’approssimarsi delle celebrazioni per il 70esimo dalla fondazione della Repubblica popolare cinese (1 ottobre) nonché a una possibile riconferma di Tsai alle presidenziali del prossimo gennaio. Secondo la banca centrale, i rischi sottostimati riguardano la dipendenza dai prestiti cinesi manifestata da altri paesi con situazioni economiche e politiche ugualmente instabili. Un punto su cui si sono espressi più volte gli Stati Uniti – primo partner militare di Taipei – allarmati dall’espansionismo di Pechino nel Pacifico sotto i vessilli della cosiddetta nuova via della seta. La regione, che ospita circa un terzo degli ultimi alleati taiwanesi, ricopre un ruolo chiave nella strategia dell’Indo-Pacifico inaugurata da Washington per contenere l’avanzata del gigante asiatico nel proprio cortile di casa.
[Pubblicato su il manifesto]Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.