Yang Rui, famoso presentatore della Cctv, in un tweet su Weibo ha insultato una giornalista e ha detto che occorrerebbe fare piazza pulita della "spazzatura straniera". La notizia è arrivata quasi contemporaneamente a quella dei nuovi controlli sugli stranieri irregolari. “Donnaccia straniera”. In questi termini ha parlato di Melissa Chan, corrispondente di Al Jazeera recentemente espulsa dalla Cina.
Ha anche chiesto che l’Ufficio di pubblica sicurezza faccia piazza pulita della “spazzatura straniera”, arresti i “delinquenti stranieri”, smascheri le “spie straniere”, e individui i “chiacchieroni stranieri” che demonizzano la Cina.
Lui è Yang Rui, conduttore di Dialogue, un programma in lingua inglese della Cctv, la televisione nazionale cinese. Una specie di Gad Lerner del Celeste Impero, giusto per intenderci, alla guida di una trasmissione che si propone come un interscambio culturale e che accoglie diversi ospiti stranieri.
Le sue esternazioni tra il paranoico e lo xenofobo – termini che quasi sempre si compenetrano come ying e yang – non sono state trasmesse in Tv, ma sono comparse su un post del suo account su Sina Weibo, il Twitter cinese.
Cctv si è affrettata a prendere le distanze da Yang – “ha postato da un suo account personale” – ma questo non ha evitato le polemiche.
Molti media occidentali, tra cui il Wall Street Journal, hanno fatto appello affinché gli ospiti stranieri boicottino la trasmissione di Yang.
Per lui c’è aria di licenziamento, anche perché Cctv-9, il canale su cui Dialogue va in onda, è uno strumento di soft power per la Cina, che ha parecchio investito nella cosiddetta “industria culturale”.
A difesa di Rui è sceso in campo il Quotidiano del popolo nella sua edizone “pop”, il Global Times, con un curioso ribaltamento di prospettiva: “È comprensibile – si legge – che alcuni stranieri abbiano chiesto alla Cctv di licenziare Yang.
Noi non appoggiamo tale richiesta in quanto anch’essa è dura e sensazionalista. Coloro che premono in tal senso sembrano sfogare su una sola persona la propria rabbia contro il giro di vite messo in atto dalle autorità di Pechino contro i criminali espatriati”.
Il riferimento non è casuale. Una decina di giorni fa, la Cina ha infatti lanciato la “campagna dei 100 giorni”: controlli a tappeto contro gli stranieri irregolari, quelli cioè non in possesso di un regolare visto e di un permesso di residenza (che si fa registrandosi al commissariato di zona non oltre le 24 ore dall’arrivo).
Secondo le statistiche, i lavoratori “clandestini” sarebbero soprattutto originari dell’Africa, del Medio oriente e del Sudest asiatico.
Ma il fatto scatenante, forse il pretesto, è stato il tentativo di stupro compiuto da un cittadino britannico contro una cinese a Pechino, un fatto che ha molto turbato l’opinione pubblica e provocato anche qualche commento ringhioso contro i laowai.
Ovviamente in Occidente, la campagna dei 100 giorni ha fatto gridare allo scandalo, ma è pur vero che la Cina, regolamentando i flussi migratori, non fa che adeguarsi alle leggi che vanno per la maggiore proprio dalle nostre parti, cioè all’andazzo generale (si pensi ai famigerati Centri di identificazione ed espulsione nostrani).
Lo fa con un certo ritardo rispetto all’Occidente perché non è mai stata terra d’immigrazione straniera, dato che per il lavoro di bassa qualifica ha sempre avuto a disposizione milioni di migranti interni che si muovono dalle zone più povere a quelle più ricche.
Ma il miglioramento delle condizioni generali di vita, l’aumento del costo del lavoro, la stessa apertura di Pechino al mondo e la creazione di nuove opportunità, hanno creato i presupposti per un’immigrazione di tipo nuovo: dall’esterno.
Yang Rui è in seguito ritornato sulle proprie esternazioni in un’intervista al Guardian, ammettendo di avere esagerato, e sostenendo con una certa sottigliezza che l’utilizzo del termine “cagna” (pofu) non voleva essere un’offesa contro le donne in genere, perché in cinese non contiene l’elemento di discriminazione sessuale comune alle traduzioni nelle lingue occidentali.
Ha anche aggiunto che “tra il 95 e il 98 per cento” degli stranieri si comporta bene.
Tuttavia ha ribadito il concetto di fondo: la Cina si dimostra fin troppo gentile e accondiscendente verso quegli expat (si presume, dal 2 al 5 per cento) che delinquono o infamano il Paese.
In rete (sia quella cinese, sia quella cosmopolita) si è scatenata la discussione e, al di là di qualche battuta azzeccata – c’è chi si congratula con Yang perché è finalmente riuscito a “raggiungere il pubblico straniero” – ci si chiede se Yang sia uno xenofobo oppure se rappresenti un diffuso sentimento nazionalista.
Ci si domanda anche se questo incidente resterà isolato o se ne preannuncia altri. La risposta, nei mesi a venire.
* Gabriele Battaglia è fondamentalmente interessato a quattro cose: i viaggi, l’Oriente, la Rivoluzione e il Milan. Fare il reporter è il miglior modo per tenere insieme le prime tre, per la quarta si può sempre tornare a Milano ogni due settimane. Lavora nella redazione di Peace Reporter / E-il mensile finché lo sopportano.
[Foto Credits: chinasmack.com]