Il monologo di Saviano sui laogai, trasmesso nell’ultima puntata di Quello che (non) ho, riporta giudizi frettolosi e informazioni estremamente generiche. Malattia comune tra chi, in Italia, prova a spiegare la Cina senza informarsi a sufficienza.
Roberto Saviano, nell’ultima puntata della trasmissione Quello che (non) ho, ha parlato dei laogai, i campi di lavoro cinesi. Lo ha fatto portando anche la toccante testimonianza di Harry Wu, che in quei luoghi ha passato 19 anni della propria vita.
Vogliamo qui sottolineare che, quando si affrontano temi così gravi e importanti, è necessario informarsi e affrontare gli argomenti in modo da fornire a chi ascolta o legge gli strumenti necessari a riflettere e a crearsi una propria opinione. Si tratta di raccontare fatti e non di raccontare aneddoti commoventi.
Trattandosi di argomenti delicati e di Roberto Saviano, i cui meriti e il cui coraggio sono fuori discussione e non vanno certo ricordati qui, è bene precisare alcune cose.
Chi scrive è per principio contro ogni tipo di carcere, ma non trova di per sé sbagliato che un carcerato lavori, a patto che lo faccia in condizioni umane, che nessuno ci lucri sopra e – sopratutto – il suo lavoro sia inserito in un vero progetto di rieducazione.
Quello che seguirà non ha nulla a che vedere con la figura pubblica di Saviano, ma solo con quanto ha detto sulla Cina e non c’è nessuna intenzione tra le righe di negare né la brutalità dei laogai né l’ottusità con cui spesso il governo cinese affronta le sue problematiche sociali.
Entriamo nel merito. Saviano all’inizio del monologo ha presentato in bella mostra su un tavolo alcuni oggetti. Tutti fatti in Cina; “potrebbero essere tutti stati fatti in un laogai”. Al riguardo sarebbe stato opportuno fare alcune puntualizzazioni.
Come già scritto su Il Fatto Quotidiano lo scorso novembre, “si tratta di qualcosa che non riguarda solamente la Cina, ma l’Occidente tutto. In particolare l’Europa. Ha che fare con la globalizzazione e il mercato basato sul lavoro e sui prodotti a basso, bassissimo, costo”.
Lo ha raccontato bene una puntata di Slavery: a 21st Century Evil, un programma di Al Jazeera, di cui il monologo di Saviano è debitore in molti punti.
L’inchiesta – raccomandata da The Bureau Investigates e probabilmente il vero motivo della chiusura degli studi di Al Jazeera in Cina- parte dalla constatazione che la Cina ha la colonia penale più estesa del mondo.
E questo è chiaro, parliamo sempre dello Stato più popolato del pianeta. I detenuti sono costretti – tra i tanti lavori – anche a fabbricare prodotti come luci di natale, parti di calzature, vestiti e macchinari vari.
Seppure ufficialmente lo Stato cinese proibisce l’esportazione dei prodotti che escono dai campi di lavoro, l’inchiesta di Al Jazeera fornisce alcune testimonianze dirette di come gli oggetti lì prodotti escano dai confini dello Stato.
Li troviamo in America, anche se l’importazione di prodotti fabbricati attraverso il lavoro “non volontario” è proibita. E li troviamo in Europa, dove – nonostante l’argomento sia stato oggetto l’anno scorso di una discussione parlamentare – non si è presa alcuna decisione al riguardo.
Dopo aver gettato esclusivamente sulla Cina colpe di cui l’Occidente è corresponsabile, il monologo prosegue e Saviano definisce il mercato interno cinese “esiguo, come si sa.
Forse era ironico, o forse Saviano farebbe meglio ad informarsi su cosa sono Pechino, Shanghai o una qualsiasi città di seconda fascia cinese e a leggersi qualche dato sul mercato interno, che tutto è tranne che “esiguo”. Anzi, aumenta la classe media, aumentano i consumi e – proprio a causa della crisi europea e americana – la Cina ultimamente sta puntando molto sul proprio mercato.
E arriviamo così alla parola da inserire nel nuovo Zanichelli: laogai.
A margine del toccante racconto dell’esperienza di Harry Wu, fondatore della Laogai Research Foundation, nessuno si è preso cura di specificare che questi ha sì passato 19 terribili anni della sua vita in un campo di lavoro cinese, ma si tratta di un lasso di tempo che va dal 1960 al 1979, in piena epoca maoista, praticamente in un’altra Cina.
È fuori discussione che la Cina abbia ancora molta strada da fare nel campo del rispetto dei diritti umani, ma non si può negare il progresso compiuto nell’attenzione verso certe tematiche, né che cinquant’anni di storia (a ritmi cinesi) hanno radicalmente cambiato il paese. Non ha più senso descriverlo come un posto dove ancora vige la legge delle guardie rosse. Non è più così, e da tempo.
Citando Saviano, “in un laogai in Cina ci finisce chiunque è contro l’ideologia comunista, chiunque decida di essere religioso, nei laogai si finisce se sei un imprenditore, se sei un controrivoluzionario di destra, se sei anche una persona che ha deciso di infrangere la regola del figlio unico”.
C’è un buon ritmo narrativo, l’uso sapiente delle parole. Peccato che le informazioni date qui siano, nella migliore delle ipotesi, generiche. Analizziamole.
“In un laogai in Cina ci finisce chiunque è contro l’ideologia comunista”. Non sarebbe più corretto dire che in un laogai può finirci chi è contrario all’ideologia comunista? (per non voler aprire la parentesi della sottile differenza tra ideologia comunista e Partito comunista cinese).
“[In un laogai ci finisce] chiunque decida di essere religioso”. Ci sono correnti della chiesta sotterranea che in Cina sono perseguitate. È vero, ma non corrisponde al vero l’immagine suggerita: credente uguale laogai.
“Nei laogai si finisce se sei un imprenditore”. La Cina non ha forse imprenditori liberi?
“[Nei laogai si finisce] se sei un controrivoluzionario di destra”. Che vuol dire? Di fatto è un’espressione caduta in disuso assieme al maoismo.
“[Nei laogai si finisce] se sei anche una persona che deciso di infrangere la regola del figlio unico”. Sono noti e comprovati gli abusi terribili in relazione a questa legge: pene gravi, sterilizzazioni forzate (e qui l’attualità non può non indurci a ricordare Chen Guangcheng, finalmente libero), rapimenti e vendita dei figli in eccesso perché le famiglie non possono permettersi di pagare le multe previste dalla legge. Ma non si hanno notizie certe di detenzioni in laogai.
Tutte queste affermazioni non corrispondono alla verità, o meglio, sono troppo generiche: verosimili, ma non vere.
Nei laogai sono rinchiuse le persone “che la pensano diversamente”. È vero, ma nel 2012 la stragrande maggioranza delle persone detenute nei laogai sono criminali comuni. E di questi, nel pezzo di Saviano, non si fa menzione.
Ancora. Saviano cita la questione dei trapianti, per altro ripresa già da qualche giornalista frettoloso. Vero, l’ultima Assemblea nazionale ha per la prima volta ammesso l’uso nei trapianti degli organi dei condannati a morte.
Ma contestualmente ha indicato anche la necessità di provvedere – a breve e per legge – alla fine di questa pratica. Inoltre, prima della problematica “organi dei condannati a morte” non viene forse quella della pena di morte?
Parlare di Cina non è facile per nessuno. Più la si conosce e più si fatica a scriverne e a parlarne.
Qualche mese fa l’approssimazione del programma radiofonico di Mike Daisey aveva fatto il giro del mondo, tanto da costringerlo a scuse ufficiali. Anche in quell’occasione si sono dette cose verosimili, ma ben lontane dal vero.
Daisey raccontava di essere arrivato ai cancelli della fabbrica Foxconn di Shenzhen – quella che produce componenti Apple e tristemente nota per i suicidi – e di aver intervistato centinaia di lavoratrici e lavoratori, alcuni di dodici o tredici anni che avevano un tremito continuo alle mani a causa dei prodotti chimici usati per pulire gli schermi dei nostri Iphone.
Ha raccontato che le fabbriche erano sorvegliate da personale armato e da videocamere a circuito chiuso perfino nei dormitori.
Ha risvegliato le emozioni che la maggior parte del pubblico occidentale si aspetta di provare leggendo un articolo che parla di Apple e fabbriche nella “comunista Cina del terzo mondo”. Con un solo problema, che per creare la storia perfetta, ha mentito.
Non su tutto certo, ma in più punti come ad esempio in quelli appena citati. E, soprattutto, ha parlato della Cina come se fossimo nel secolo scorso, una Cina esotica, che si presume nessuno conosca.
E dove, invece, ci sono moltissime persone che lavorano, possono verificare i fatti; persone che vivono in questa realtà e ne conoscono i pregi e i difetti.
Gli errori di Daisey sono stati purtroppo commessi anche nel programma in prime time di Fazio e Saviano. Hanno parlato di Cina rivolgendosi alla pancia degli spettatori, senza considerare che “la seconda economia mondiale” ha una complessità che va conosciuta prima che criticata. È un dovere che chi parla a un pubblico così ampio deve tenere presente.
I nostri complimenti per il 19 per cento di share, nella speranza che la prossima volta che i nostri affronteranno problematiche relative alla Cina vi si accostino con l’umiltà che si deve a un miliardo e mezzo di persone.
Ah, un’ultima cosa. Il premio nobelLiu Xiaobo non è mai stato tra i promotori di Piazza Tian’anmen. All’epoca era un ricercatore di filosofia, specializzato in estetica.
Tian’anmen è stato un movimento popolare che si scagliava in primo luogo contro la corruzione dei funzionari a cui gli studenti hanno dato voce e vita. Il signor Liu (senza bisogno di chiamarlo per nome come fosse un amico, Xiaobo) era ed è un pensatore e un intellettuale, non un politico. Niente di più, niente di meno.
Ma questo per i media italiani è ancora troppo difficile da capire.
[Foto Credits: ilfattoquotidiano.it]