Economia cinese. Lavori in corso

In by Simone

Dietro al recente rallentamento dell’economia cinese si nasconde una profonda trasformazione strutturale. Pechino ha già avviato una riforma monetaria aumentando la banda di oscillazione del renmimbi. Ma tra considerzioni strategiche e necessità economiche i rischi sono tanti. Nel primo trimestre dell’anno, il tasso di crescita dell’economia cinese è stato dell’ 8,1 per cento, il più basso dal 2009, secondo i dati diffusi il 13 aprile dall’ufficio nazionale di statistica.

Nel trimestre precedente la crescita era stata dell’8,9 per cento e per il periodo gennaio-marzo 2012 gli economisti prevedevano un 8,3 che si è rivelato ottimistico.

Nell’immediato questi numeri potrebbero scoraggiare gli investitori, soprattutto per il timore che il “ciclo negativo” si estenda al secondo trimestre dell’anno. Ma il loro vero significato sta nel fatto che rivelano una profonda trasformazione, ciclopica e in divenire, dell’economia cinese.

Al momento, dicono gli analisti, la crescita del consumo interno non è sufficientemente elevata da compensare il calo delle esportazioni, dovuto al rallentamento della domanda sui principali mercati delle imprese cinesi, l’ Europa e gli Usa.

L’Ansa cita Ren Xianfang, economista di stanza a Pechino della Ihs Global Insight, secondo cui l’economia cinese sta subendo un “doppio colpo”, costituito dall’ indebolimento sia delle esportazioni sia del settore immobiliare, che finora è stato uno dei principali fattori di crescita.

Quando la crisi globale del 2009 si approssimò al Celeste Impero, Pechino reagì infatti con un pacchetto di stimoli che puntava soprattutto su costruzioni e infrastrutture, per la gioia di palazzinari e speculatori edilizi ma anche delle masse migranti e scarsamente scolarizzate che nei cantieri trovavano un sicuro approdo lavorativo.

I tempi sono cambiati assai rapidamente. Il problema è infatti diventato in breve tempo quello di frenare i prezzi immobiliari: la cosiddetta “bolla” che produceva cementificazione selvaggia, corruzione, città sorte come funghi e disabitate, prezzi inaccessibili alla grande massa dei neo-urbanizzati.

Pechino ha quindi da un lato imposto “politicamente” una stretta del credito immobiliare e dall’altro cercato di trasformare i cinesi da lavoratori-risparmiatori a consumatori; di sviluppare il mercato interno più che il settore export-oriented.

Tuttavia, la stretta del credito si è estesa ad altri settori dell’economia, mandando in rovina molti piccoli imprenditori, che si sono trovati improvvisamente senza liquidità proprio mentre si contraeva la domanda internazionale dei loro prodotti.

Le autorità hanno reagito legalizzando a livello sperimentale il credito privato, prima sommerso e illegale: è successo a Wenzhou, città simbolo della piccola imprenditoria cinese. E siamo giusto al 13 aprile.

I dati diffusi dal governo ci dicono che il Dragone si trova a metà del guado. Dalla buona riuscita della trasformazione epocale dipende il futuro, anche politico, del paese.

Questa storia si interseca con i giochi di vertice che si concluderanno il prossimo autunno, con l’avvento della nuova generazione di leader, e nei quali è già rimasto stritolato Bo Xilai, l’ex “piccolo Mao” di Chongqing.

Il pericolo, da oggi, è che nella sua metamorfosi la Cina non riesca a mantenere tassi di crescita sufficientemente alti da dare sempre più benessere alla sua immensa popolazione, la scommessa nella quale il Partito si è imbarcato da trent’anni. Potrebbe scaturirne il caos.

Il cambio di rotta si sta facendo sentire anche in tema di politica monetaria. Sabato 14 aprile la Cina, infatti, ha ampliato la banda di oscillazione dello yuan/renminbi rispetto al dollaro.

Prima era dello 0,5 per cento, ora dell’1, un aumento superiore a quanto si prevedeva (0,7 per cento), commentato in lungo e in largo dagli analisti internazionali durante il week-end.

Colpisce soprattutto che la misura arrivi subito dopo la diffusione dei dati sul rallentamento dell’economia cinese.

La circostanza è stata interpretata come una mossa più politica che economica: le autorità di Pechino vogliono “rassicurare” il mondo a proposito della propria velocità di reazione, ci dicono che il rallentamento dell’economia fa parte di una più generale riconversione in cui tutto è previsto, tutto è sotto controllo. E non è escluso che così sia, almeno in parte.

Le autorità economiche globali plaudono alla scelta cinese, a partire da Christine Lagarde, direttore generale del Fondo monetario internazionale, secondo cui la nuova banda d’oscillazione “sottolinea l’impegno della Cina per riequilibrare la sua economia verso il consumo interno e permettere alle forze di mercato di svolgere un ruolo maggiore nel determinare il livello del tasso di cambio”.

Il dipartimento del Tesoro Usa si allinea, ma ricorda che la novità non è sufficiente a colmare il vantaggio competitivo che la Cina si procurerebbe mantenendo il valore dello yuan artificialmente basso: schermaglie.

C’è però chi legge tra le righe della scelta cinese una mossa machiavellica. Gli analisti della Deutsche Bank di Hong Kong, per esempio, ritengono che “in un periodo in cui Pechino sta restringendo le limitazioni all’accesso di capitali esteri e sta dando maggiore impulso allo sviluppo dell’industria finanziaria, una banda di oscillazione più ampia serve come deterrente contro i flussi di capitali speculativi”.

Traduciamo. Lo yuan commercializzato sui mercati offshore, a differenza di quello in patria, subisce attacchi speculativi.

Più il limite di oscillazione è basso e più la speculazione internazionale si accanisce su quel limite, cercando di forzarlo. Se vogliamo metterla sul piano evocativo, è come se la Cina avesse dato alla propria moneta più spazio per indietreggiare di fronte a una carica nemica.

Una mossa da “Arte della guerra” di Sun Tzu, proprio nel momento in cui, rendendo più facile l’investimento finanziario straniero oltre Muraglia, Pechino rischia di attirarsi la speculazione in casa.

Un’altra ipotesi è che la Cina stia paradossalmente scommettendo contro la propria valuta. A Zhongnanhai e dintorni qualcuno potrebbe prevedere che in futuro il valore dello yuan calerà invece di salire. Se, grazie a una banda di oscillazione più ampia, potesse scendere di più di quanto faccia finora, l’export cinese ne beneficerebbe ulteriormente.

Infine ci sarebbe una valutazione strategica di più ampio respiro. Proprio nel momento in cui le borse occidentali si rivelano volatili e insicure, la Cina cercherebbe di attirare capitali stranieri rendendo la propria moneta più allineata agli andamenti di mercato.

Fino a qualche anno fa – spiega Niccolò Mancini, broker di Piazza Affari e collaboratore di E-il mensileil renminbi era pressoché sconosciuto sui mercati finanziari; oggi, qualsiasi operatore offre gestioni in renminbi, ma non solo: anche veri e propri prodotti confezionati attorno alla moneta cinese”.

La mossa di Pechino è più interessante se vista in prospettiva, dunque, che nell’immediato. La sensazione è che la Cina percorra una strategia molto pragmatica e al tempo stesso visionaria: da un lato, non vuole attirare speculazione finanziaria in casa propria e quindi lascia oscillare, ma continua a controllare “politicamente”, la propria moneta.

Dall’altro, vuole gradualmente affiancare il renminbi a dollaro ed euro come valuta universale di scambio e di riserva e quindi lo rende più appetibile sui mercati.

È la “lunga marcia dello yuan”, un’immagine che riprende il 16 aprile anche il Financial Times.

[Scritto per E il mensile; Foto Credits: threatenedwaters.com]

* Gabriele Battaglia è fondamentalmente interessato a quattro cose: i viaggi, l’Oriente, la Rivoluzione e il Milan. Fare il reporter è il miglior modo per tenere insieme le prime tre, per la quarta si può sempre tornare a Milano ogni due settimane. Lavora nella redazione di Peace Reporter / E-il mensile finché lo sopportano.