Per chiunque — con scadenza annuale, mensile o, per i più motivati, settimanale — arriva il momento di mettere ordine tra le proprie cose, documenti, vestiti, scarpe, libri. Almeno per chi scrive, di solito, è un momento drammatico.
Da qualche anno Marie Kondo — una ragazza giapponese di trent’anni, ex dipendente di un’agenzia di recruiting — prova a risolvere i problemi di disordinati e accumulatori seriali proponendo il suo metodo che unisce il buon senso della massaia al kawaii — «carino» — delle celebrità made in Japan.
Kondo ha realizzato il sogno di tanti: trasformare la sua passione per mettere in ordine stanze — nel suo caso, e su sua stessa ammissione, una vera e propria mania — in un lavoro. E anche parecchio remunerativo — non solo in senso monetario. Nel 2015 è stata eletta tra le cento personalità più influenti del mondo secondo il magazine statunitense Time, dopo che il suo libro «Il magico potere del riordino» è diventato un bestseller mondiale. È di questa settimana la notizia dell’arrivo de «Il magico potere» al top della classifica dei libri più venduti negli Stati Uniti secondo Usa Today.
Nei suoi libri e nelle sue apparizioni pubbliche — tra programmi televisivi e video su Internet — oltre a dare consigli su come tenere in ordine armadi, cassetti e librerie, Kondo ha creato una propria teoria sullo sbarazzarsi di cosa non è più necessario.
Essa si fonda sul grado di gioia che un oggetto ci trasmette al contatto con il nostro corpo. Se questo è alto e, nella mimica della consulente per l’ordine contribuisce ad un innalzamento del morale, allora sarà giusto tenere l’oggetto con noi. Se, al contrario, l’oggetto non ci dà un senso di gioia, sarà allora il caso di liberarsene.
Il metodo KonMari sta raccogliendo un grande seguito dall’altra parte del Pacifico, spinto dall’endorsement di celebrità hollywoodiane del calibro di Jamie Lee Curtis e dei media a stelle e strisce. Qualche periodico ha iniziato ad usare «kondo», il cognome della giovane consulente, come un verbo.
L’origine del suo successo va ricercata però in Giappone e affonda le sue radici nella storia recente. Kondo inizia a far parlare di sé nel 2009, all’incirca nello stesso periodo del danshari — che in giapponese si scrive con tre caratteri che significano rispettivamente «tagliare», «gettare», «allontanarsi» — un movimento intellettuale e stile di vita fondato sul liberarsi delle cose inutili della vita quotidiana.
Appena un anno prima, il paese era stato investito dalla crisi finanziaria globale scaturita dal crack di Lehman Brothers negli Stati Uniti: un evento che aveva portato al crollo della produzione industriale, al conseguente credit crunch e a una crisi politica risoltasi nella fine dell’egemonia del Partito liberaldemocratico al governo ininterrottamente dal secondo dopoguerra.
In un articolo di dicembre 2015, Cecilia Attanasio Ghezzi raccontava del successo del movimento «minamilista» negli ultimi anni e della creazione di vere e proprie comunità online che si scambiano idee e pareri su come ridurre all’essenziale i propri consumi.
Il «metodo giapponese» — un’espressione usata nel sottotitolo delle traduzioni italiana e inglese del libro di Kondo — ha in realtà radici nella storia recente del paese arcipelago. E che forse più che con la «tradizione» giapponese — negli articoli dedicati a Kondo si leggono ad esempio riferimenti alla filosofia zen o allo shintoismo, la religione autoctona giapponese, come se piegare bene magliette e calzini fosse frutto di un’arcaica sapienza «orientale» — ha a che fare con le crescenti disparità economiche, le trasformazioni del mondo del lavoro che interessano soprattutto le generazioni più giovani, e, più in generale, con gli spazi abitativi ristretti tipici del paese arcipelago.
I piccoli appartamenti dove abitano milioni di giapponesi finiscono presto per riempirsi di oggetti e risultare in disordine. Come mostra un divertente articolo del magazine online Kotaku, in contrasto con la pulizia e la precisione delle città del paese-arcipelago, il caos in casa è la regola. Un caos forse di «reazione»: in una società complessa, in cui le regole e il controllo sociale sono pervasive, e gli ambienti sono spesso freddi e asettici, la casa, pur nel suo disordine, è un caldo «rifugio».
[Scritto per East online; foto credit: homeworktime.nl]